6 febbraio 2018 – Autore: Alessia Laudati (Nexta)
Un film tradizionalmente mucciniano ma riuscito che trova l’equilibrio tra pathos e realismo
Prima di vedere ogni nuovo film italiano di Gabriele Muccino mi faccio la stessa domanda: il regista avrà superato il conflitto tipicamente borghese tra ‘essere’ e ‘apparire’? Tra ciò che la natura personale suggerisce e ciò che la società impone? La risposta questa volta è no perché il regista romano ripropone questi stessi temi anche nel suo ultimo lavoro italiano. Tuttavia bisogna riconoscere che in A Casa Tutti Bene la ripetitività si è fatta stile più che vezzo e pur rimanendo il film nello stesso recinto ideologico di sempre, la famiglia e i suoi conflitti e i diversi modi in cui ognuno cerca di essere felice mandando al diavoli i diktat comportamentali oppure subendoli, esso introduce due originali novità. La prima è un tono da commedia satirica, meno enfatica del solito, che non ha bisogno di giustificarsi in alcuna morale unica finale e rassicurante. La seconda è la rottura di classe. Solitamente infatti i personaggi dei film italiani di Muccino sono tutti borghesi; mentre qui Gianmarco Tognazzi appartiene a un universo più popolare che il regista esplora con convinzione e realismo e che irrompe nel perbenismo della famiglia perfetta come una spina nel fianco. Matura è infine anche la scelta di trattare il tema della malattia con il personaggio dolceamaro e intenso di Massimo Ghini.
Insomma pur rimanendo in certi ambiti conosciuti questo film dimostra grande maturità e soprattutto non affida il suo centro a scene di litigi piene di enfasi, ma piuttosto a una volontà di andare a fondo e di non farsi trascinare solamente dal ritratto dell’isteria. I 20 protagonisti principali di A casa tutti bene sembrano un po’ sostenere il motto del: ‘Ogni famiglia infelice è infelice a modo suo’ di Lev Tolstoj e lo scopo del film è raccontare come e perché questi personaggi sono infelici, quali bocconi amari hanno accettato di ingoiare o non ingoiare per la loro felicità o infelicità e dove tutti i protagonisti sembrano attualizzare il cinico motto di un film magistrale sull’amore come Closer: ‘Love is a compromise’.
Nel film c’è il marito infedele (Morelli), il marito esaurito (Favino), l’isterica gelosa (Crescentini), il malato di Alzheimer (Ghini), e poi c’è lo spirito isolano di Ischia che mette tutti di fronte al grande limite della forza naturale, una mareggiata ostacola qualunque tentativo di fuga, chiedendo a ciascun personaggio di misurarsi nel profondo con i propri desideri e paure. Certo, non tutti i personaggi sono riuscitissimi e ‘nuovi’ e per esempio il ‘vitellone’ di Stefano Accorsi è quello che un po’ di più soffre la sua caratterizzazione in quanto a orginalità. Però a voler guardare il film come un’orchestra, visto che si tratta di una una pellicola corale, è sicuramente una pellicola dove ognuno suona intonato e preciso il suo strumento facendo anche un po’ commuovere. Dove ciascuno, senza troppo miele e aggiustando un po’ quel pathos che rischiava di portare troppo fuori strada il lavoro del regista romano, ha un suo perché di esistere incarnando da solo una risposta diversa alla stessa domanda sul come essere felici oggi.
Fonte: film.it